
Media literacy, coding e cittadinanza digitale: apprendere e costruire con le tecnologie
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ESPAÇO PEDAGÓGICO
v. 26, n. 2, Passo Fundo, p. 338-351, maio/ago. 2019 | Disponível em www.upf.br/seer/index.php/rep
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Per riflettere sul complesso rapporto tra educazione e tecnologia digitale può
essere utile partire da una considerazione relativa ai processi di alfabetizzazione.
Per migliaia di anni la maggior parte delle persone sul pianeta non ha potuto
sviluppare competenze alfabetiche e scrittorie, restando esclusa dalle specifiche
pratiche di addestramento previste per l’interiorizzazione delle stesse logiche
alfabetiche. Oggi a questo proposito, dopo decenni di politiche pubbliche e di
industria culturale, la ricerca in campo neurocognitivo sottolinea il ruolo della
plasticità sinaptica del cervello, la capacità di adattarsi agli strumenti che di
volta in volta utilizziamo. Se per la vista e il linguaggio sappiamo che esistono
geni specifici, così non è per la lettura: diventiamo abili lettori e scrittori grazie
alla capacità delle sinapsi di modificare la struttura e la funzionalità del sistema
nervoso in base all’esperienza (WOLF, 2012, 2018).
Walter J. Ong (1986), nel suo celebre studio sul rapporto tra oralità e
scrittura, scrisse che la scrittura fu l’evento di maggiore importanza nella storia
delle invenzioni tecnologiche dell’uomo. Tutt’altro che una semplice appendice del
discorso orale, la scrittura ha consentito l’apertura verso una nuova dimensione
del sensorio, trasformando allo stesso tempo discorso e pensiero attraverso la
vista (ONG, 1986, p. 126-127). In quel testo lo studioso gesuita ricordava come la
tecnologia della scrittura abbia richiesto nel tempo l’uso di una serie di strumenti
quali penne, pennelli, superfici predisposte, tavolette, pelli, inchiostro colori e
diverse altre cose. Ong opponeva la scrittura al linguaggio “naturale” dell’oralità,
ricordando che non vi è modo di scrivere naturalmente.
In quest’ottica tutte le tecnologie possono essere viste come intrinsecamente
artificiali, ma – paradossalmente – la dimensione dell’artificialità emergerebbe
come naturale per gli esseri umani. Tecnologie non come aiuti esterni, dunque, ma
agenti di trasformazione delle nostre strutture mentali e corporee (MORIGGI, 2014;
MARAGLIANO; PIREDDU, 2012). È questa la lezione dell’antropologia filosofica,
della cibernetica, delle riflessioni novecentesche sui media, da Walter Benjamin
a Marshall McLuhan, e delle elaborazioni pedagogiche di Seymour Papert e del
costruzionismo. A questo proposito è bene sgombrare il campo dal “nuovismo”
di cui è intriso il dibattito attuale sulle tecnologie digitali per l’educazione.
Secondo McLuhan una tecnologia può essere definita “nuova” unicamente quando
rimette in discussione le gerarchie tra i sensi, ora privilegiandone alcuni, ora
“narcotizzandone” altri (cfr. MCLUHAN, 1997). Sappiamo che non si possono
considerare i singoli sensi - vista, udito, tatto, olfatto, gusto – come perfettamente
isolati l’uno dall’altro: ciò che accade nell’organismo alla comparsa di un medium